Dagli allievi

Se una donna muore, l’altra lotta per lei

Tratto dal blog “Rose a teatro“.
 

Il teatro non è solo una forma d’arte che ci allieta la mondanità e non è neppure solo un mezzo per salvarci dalle atrofie del cuore, non è neanche solo un trucco per apparire più comprensivi, più aperti o più profondi. Il teatro è piuttosto il più potente riflettore sulle crepe del genere umano e quando l’uomo scopre una crepa, le opzioni sono due: scappa o ci si infila.

In questo momento, non si fa che parlare di violenza sulle donne. In Italia, ogni due giorni, viene uccisa una donna, sono perlopiù ragazze tra i 18 e i 30 anni e il 74% degli assassini è di nazionalità italiana. L’arma più utilizzata è il coltello e viene usato a colpi ripetuti per gelosia e possessione. Se vengono stuprate è perché indossavano una minigonna; se vengono uccise è perché non hanno capito chi avevano a fianco; se non indossavano una minigonna o se hanno capito tutto, ma sono ugualmente vittime di stalking, pedinamenti e insulti, vuol dire che rientrano nella categoria “gattamorta”; e anche quando stanno lavorando, vestite con abiti professionali e con atteggiamento tutt’altro che sinuoso, sono delle cosiddette “s-figate”, ovvero i “senzacoglioni” in versione femminile e se al maschile significa che sono poveracci,  per le donne significa che non trombano!
Rose a Teatro, per la prima volta, ha deciso di compiere un coraggioso parallelismo tra il fenomeno più discusso dei nostri tempi e la forza del teatro o la responsabilità che esso si assume nella lotta di genere. Rose a Teatro ha un’identità femminile, non femminista – altrimenti dovremmo, seppur in un futuro lontanissimo, lottare al contrario – che si batte per la libertà umana e non solo di genere e per questa ragione non può, davanti alle crepe giganti dell’essere umano, far finta di niente, non può scappare, deve, deve assolutamente lottare per sostenere e difendere la natura che le appartiene.
 
In una delle mie prime esperienze di teatro, decisi di imbattermi in una storia di stupro. Ne parlai con i miei compagni, due ragazzi di cui avevo ed ho grande fiducia, e insieme decidemmo di portarlo in scena. Io interpretavo il ruolo di un’operaia e loro rispettivamente la parte del collega e del capo, entrambi colpevoli di un’azione struggente nei confronti di lei. La performance risultò al pubblico disturbante. Nel nostro intimo invece eravamo esausti, a causa dell’energia e della foga che avevamo buttato fuori e mai negli anni successivi, ripensando a tutto, mi sono sentita male per non dire pentita, nell’aver osato lanciare esternamente un messaggio così vomitevole.
Dopo qualche anno, mi capitò di leggere un tascabile de il Saggiatore, dal titolo I MONOLOGHI DELLA VAGINA di Eve Ensler. In copertina spiccava l’immagine di una conchiglia, una bellissima conchiglia, una conchiglia perfetta. Molto probabilmente, l’avessi avuta in mano, l’avrei avvicinata all’orecchio – invece per la coordinatrice del laboratorio, di cui si parla a pagina 63 del libro, la conchiglia rappresenta la vagina “che si apre e si chiude, un fiore, un tulipano eccentrico…” – mi ritrovai poi, guarda caso, a pagina 186 e lessi lo spunto di un’attrice del cast malese, Kota Kinabalu: “Se gemere su un palcoscenico significa che ci sarà anche solo un’altra donna che non dovrà più gemere il dolore, che un giorno mia sorella potrà passeggiare nel parco senza avere paura di essere violentata, che mia nipote potrà crescere in un mondo libero dalla violenza, allora io gemerò… e gemerò un po’ di più.”
E allora non posso che pensare prima ancora ad Eleonora Duse, la più grande attrice di tutti i tempi, in scena per la prima volta a 4 anni. Qualcuno dietro le quinte la picchiò sulle gambe perché sul palco le venisse da piangere. E proprio lei, per prima sfruttata e umiliata dal grande D’Annunzio, parla delle donne così:”Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – o se nacquero perverse – perché io sento che hanno pianto – hanno sofferto per sentire o per tradire e o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini.”
 
Poi arriva il martedì sera, esco di casa, prendo il tram, è buio, la strada che mi porta allo spazio è breve, per fortuna. Ogni tanto mi guardo le spalle, Milano non è il Bronx, ma neanche Castel Frentano. D’estate vado in bicicletta, sono molto più tranquilla, posso correre via. D’inverno è tutto un po’ più cupo. Attraverso una piccola area verde, vuota, silenziosa, potrei evitarla, ma faccio prima e in fin dei conti mi piace di più che percorrere tutta la rotatoria. Vado ad incontrare i miei compagni di Anime Sceniche, il gruppo di teatro con cui faccio ricerca, sperimentiamo. Facciamo tutti una serie di esercizi per “connetterci sinceramente”: ci abbracciamo, esplodiamo in improvvisazioni rabbiose, proviamo a superare le paure, le inibizioni, lottiamo contro i pregiudizi della mente per tornare bambini, per rivivere l’innocenza e la meraviglia perdute chissà quando e per colpa di chi. Ci chiediamo prima di tutto “come ci sentiamo in quel preciso momento”. Non è una domanda facile, spesso neghiamo la vera risposta, alle volte ci illudiamo, altre ci opponiamo reprimendo il vero sentimento che ci sfiora. Ma proviamo. Quantomeno proviamo a conoscere davvero quello che passa dentro di noi, le debolezze che ci appartengono, proviamo ad essere umili nel nostro intimo, prima ancora che fuori, proviamo. Proviamo a conoscerci, ad accettare quello che siamo senza giudizio. Proviamo a superare le etichette, il dovere di coerenza, la cosa giusta. Proviamo semplicemente a incontrare noi stessi e a sorprenderci di come l’istinto ci governi, senza che la ragione si intrometta. Proviamo ad entrare nel nostro cuore per comprenderlo, accettarlo e solo allora difenderlo. 
Il teatro fa questo, rende possibile la conoscenza di sé e la mette a disposizione degli altri, di un pubblico, formalmente. Il teatro muove il coraggio per arrivare alla resa dei conti, nutre la voglia di mettersi a nudo, di uscire allo scoperto, di aprire le catene, abbattere le gabbie, sfidare i silenzi, lottare per restare vivi, profondamente vivi – davanti a chiunque, senza timori, senza vergogna, liberi.
 
Ed è credo per questa ragione che esiste il teatro nella mia vita. Esso è fonte di sempre nuove scoperte legate al comportamento umano, debolezze e poteri – socialmente classificate come buone o cattive. In teatro non c’è sentenza, c’è il superamento, l‘andare oltre, il guardare dal lato di chi abbiamo di fronte e questo processo risulta tanto più difficile quanto più forti sono le proprie paure. Così, so che se dedico la mia vita a ricercare il coraggio che serve per non giudicare e a non temere il giudizio, non mi perderò mai, forse anche in caso di estrema violenza.

di Rosamaria Castiglione Angelucci – attrice  del Gruppo di Ricerca di Secondo Anno Anime Sceniche – Anno accademico 2017/2018

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