Il personaggio esiste, o forse no?
Il personaggio esiste, o forse no?
Per tutto il ‘900 si è assistito alla nascita e allo sviluppo dei più grandi metodi di recitazione. Non sono mancate le dispute sugli aspetti più caratteristici di questo o quell’approccio. Del resto, si sono protratte fino ai giorni nostri.
Quando, in Anime, si tengono i colloqui di selezione per formare le classi, poniamo ai candidati una domanda: “perché vuoi studiare recitazione?”
Le risposte sono le più disparate ma quella che si sente udire più di tutti è “Perché voglio imparare a essere qualcun altro”.
Di fronte a questa risposta provo sempre un certo disagio: davvero recitare è essere qualcun altro?
Perché, poi, si deve voler essere qualcun altro? Forse perché questo può servirci per imparare a provare emozioni che non siamo abituati a provare? E, ancora più dilemmatico per me, perché mai è necessario ricercare quelle emozioni in qualcun altro? Fare ciò non significa “descrivere” invece di “vivere”? Ma, poi, chi è questo “qualcun altro?”.
Molte volte mi sono chiesto chi o che cosa fosse davvero il personaggio. Esiste davvero? Da cosa nasce davvero il personaggio? Cosa vede il pubblico, me o il “personaggio”?
Se la recitazione è “l’abilità di vivere in maniera onesta sotto un set di circostanze immaginarie date”, possiamo noi vivere in modo onesto le emozioni di qualcun altro? O possiamo, invece, solo descriverle? Del resto non sono proprio così sicuro che possa essere definito “sano” credere di vivere le emozioni di qualcun altro invece delle proprie.
Con buona pace di “incantatori di serpenti” e “prestigiatori”, che piaccia o meno, vivere in maniera onesta sotto un set di circostanze immaginarie è proprio quello che succede sul palco. E, in base a questo costrutto, il concetto di “personaggio” viene meno. Il personaggio non esiste. Non si “entra” e non si “esce” da nessuna parte (figuriamoci da un personaggio). Esistere significa “essere nel reale”. Il personaggio è reale? No, che non lo è, perché il personaggio è immaginario, è un’illusione agli occhi di qualcun altro, il pubblico.
Fa sorridere il pensiero a tutti quegli esercizi di “decompressione” che aiuterebbero a non rimanere “incastrati” nel personaggio. Sciocchezze che niente hanno a che vedere con la recitazione, ma, di certo, con la suggestione o, peggio, con la superstizione. Se pensiamo di essere Alma Winemiller, Hamlet o Willy Loman, forse è il caso di rivolgersi a uno bravo.
Il personaggio non esiste. Il personaggio è un’illusione agli occhi del pubblico. L’unico aspetto che rende gli attori “personaggio” è il modo in cui loro ottengono quello che vogliono sulla scena. Tutto il resto è un far emergere ciò che è già dentro di noi (dentro di noi, non dentro qualcun altro). L’essere umano ha a corredo tutte le emozioni e le modalità, si tratta solo di lasciar emergere ciò che veramente c’è già dentro di noi.
Ma quindi, perché questa disputa? Perché c’è chi sostiene che il personaggio esiste e c’è, invece, chi dice il contrario?
Io penso che si tratti di capire che cosa si intende davvero per “essere sé stesso”.
Se con “sé stesso” s’intende ciò che siamo abituati a far emergere durante la nostra vita quotidiana allora lasciamo perdere la recitazione e diamoci all’imitazione.
Ma se capiamo che ciò che la vita ci ha portato a diventare non ha nulla a che vedere con ciò che siamo veramente (il vero “sé stesso”) allora il discorso si fa più interessante, oltre a mettere tutti d’accordo, perché, per dirla alla Renzo Casali, “l’attore che esprime sé stesso tramite una situazione immaginaria, è un apostolo del teatro”.
Francesco Scarpace Marzano – Direttore Artistico