Biografie

Tennessee Williams, il lupo del sud

Il 26 marzo 1911, a Columbus, nasceva Thomas Lanier Williams, meglio conosciuto come Tennesse Williams, ovvero l’artista più controverso di tutti i tempi, la vera serpe in seno per un’America perbenista e contraddetta dallo squallore degli eccessi, nei suoi prossimi “anni ruggenti”.

La verità di Williams è tutta raccolta in un frammento preziosissimo per l’intera storia della letteratura e del cinema americano, si tratta del monologo di Blanche, un pezzo di decadenza assoluta legata alla società statunitense del dopoguerra e la cui forza incancellabile risuona forte ancora oggi. Siamo a New Orleans, il titolo dell’opera, scritta nel 1947, è Un tram chiamato desiderio, Blanche è una donna alcolizzata, la sua vita è una vetrina di sesso e violenza, perdente, come il suo autore, o meglio, come l’America maschilista di quell’epoca lo reputa. Nello stesso anno, per la regia di Elia Kazan, viene allestita la commedia con Marlon Brando, Karl

Marlon Brando
Marlon Brando e Vivien Leight in “Un tram che si chiama desiderio”

Malden e Kim Hunter, un capolavoro irriverente ridotto dalla censura ad un dramma socialmente accettabile, ma che riesce a strappare, nel 1951, ben 4 premi Oscar.

Tennesse Williams si definiva un “lupo solitario”, le sue giornate erano accompagnate dal whisky, generoso trascorreva le sue vacanze a Taormina, città-rifugio, un paradiso del sud che gli permetteva di trasgredire e che lo aiutava a stare meglio, lontano dalle contestazioni morali.

Così, tra l’origine benpensante e la sua indole ben diversa, visse su un’altalena di desideri e ostruzioni, ingabbiato nella frustrazione e relegato, dalla sua stessa famiglia, allo stato di “malattia”. Fin dai tempi dell’università, proprio mentre scopriva la sua passione per la poesia, suo padre lo obbligò ad interrompere gli studi perché cominciasse a lavorare, Williams obbedì, ma non smise mai di scrivere: “Se smetto di lavorare il resto della giornata è postumo. Io sono veramente vivo solo quando scrivo.

In seguito, riuscì a riprendere gli studi e a laurearsi all’Università di Lowa, al di là dell’evento, il 1938 sarà l’anno del genio, perché segnerà il suo talento drammaturgico; la scrittura sarà per lui la via di fuga, innanzitutto dalla sua casa tradizionalista che non accetterà mai il suo essere omosessuale, poi dalla società americana a cui darà fastidio quella vita tanto sregolata.

Williams è solo, un drammaturgo inequiparabile, ma in una condizione inaccettabile per la società emarginante di quei tempi, ad un certo punto dirà: “tutte le persone crudeli si definiscono campioni di sincerità”, abbandonato alla peggiore critica, nonostante la sua sia stata una personalità autentica e vitale.

New Orleans, anni ’30, la Grande Depressione si racchiude tutta nell’opera I Blues, dove tre donne sono spiate nei loro panni più sporchi e mortificanti. Torna il tema del Sud, della famiglia, dell’esistenza sfortunata e a connettere i fili del dramma è la musica blues, le cui origini risiedevano, non a caso, nell’animo schiavo dell’Africa che prendeva coscienza: “Oh Signore, sono stanco di questo disordine“. I Blues è un’opera al limite, le donne non riescono a reagire, la musica le conduce nella loro più profonda, seppur peggiore, intimità, d’altronde solo attraversando intensamente la propria distruzione si può comprendere l’errore e forse superare il dolore.

A questo punto, diventa doveroso introdurre una piccola parentesi che ebbe su Williams un enorme effetto, si tratta di sua sorella Rose che, malata di mente, subì un intervento di lobotomia, quella pratica neurochirurgica fortemente discussa poiché “trasformava il malato in un idiota”. E fu proprio il vissuto di un dramma così vicino e caro ad ispirarlo e a guidarlo nell’elaborazione del personaggio di Laura, nell’opera Lo Zoo di vetro, 1950. L’autore immagina una realtà che non è reale, un luogo che non è luogo, una verità che è solo un’illusione, se non addirittura un inganno. Il narratore è anche un personaggio e quindi veste una doppia natura, da un lato racconta la realtà, dall’altro la interpreta o, per meglio dire, la simboleggia: “Egli è quel concetto che è sempre atteso e sempre rinviato per il quale viviamo”. L’opera è un “dramma di memoria”, un passato che torna a turbare ogni momento presente, l’auto-negazione si oppone al sogno di libertà. Una famiglia nasconde la diversità fisico-mentale della figlia, il cui valore straordinario rimane cristallizzato, in tutti i sensi, in una banale collezione di animaletti o in una più incomprensibile verità. Nello zoo, l’animale è rinchiuso in una gabbia, siamo nell’ambito della sottomissione dell’istinto alla ragione, della singolare espressione alla durezza delle regole, lo spettatore guarda la menzogna e la eleva a cultura. Williams come Laura vive a metà, ingabbiato anche lui da chi lo circonda, ma probabilmente libero nella sua speciale bellezza.  

Ma c’è una svolta, la coscienza del debole inizia a farsi gretta e, se fino a quei tempi, aveva subito la critica sociale più puritana di quegli anni, con La gatta sul tetto che scotta, 1954, Williams porta alla luce tutto quello che di più immorale si nasconde nell’animo Americano, dall’ipocrisia alla sete di successo, dai soldi ai rapporti d’interesse, il concetto di famiglia crolla sotto l’esplosione di un dramma ossessivo e Margaret è la gatta. Nessuna bestia fu più azzeccata, animale difensore, che graffia se avverte il pericolo di perdere il proprio spazio vitale, simbolo di fertilità e sessualità, ma anche di impellenza e slealtà, specialmente se messa su un tetto che scotta. In un contrasto perenne di menzogne e tentativi di seduzione, lei è sola, tanto per cambiare, in un finto nido d’amore, contro un padre misogino che, al termine della sua vita, in quei famosi anni di presunta saggezza, si aliena nella paura di perdere l’intera materialità delle cose. Con quest’opera Williams sconvolge tutti i piani di un uomo e della sua casa, la devozione si sposa con l’aridità, la malattia con la miseria interiore, l’astuzia con la bugia e alla fine dell’opera, nessuno di quel profondo sud finirà per vivere felice e contento.

Anna Magnani
Anna Magnani e Marisa Pavan in “La rosa tatuata”

E perché dovrebbe visto che lo stesso Williams è un uomo infelice? Le sue opere appaiono ripugnanti e la sua terra non gli appartiene. Solo un paese non lo abbandonerà mai, lontano e non sempre raggiungibile, che lo ispira in tutti i suoi intrecci letterari, il punto in cui affonda le sue uniche e fortunate dannazioni: il Sud. Il Sud di Williams non simboleggia, è la sua vera culla, quel Sud dove si celebra la virilità, senza reprimere lo scandalo; terra di malizia e pettegolezzo su amori appassionati e su tradimenti ancora più ardenti, ma soprattutto molto fertile per far sbocciare l’opera che diventerà la più celebre del cinema degli anni ’50, La rosa tatuata, 1955.

Anna Magnani
Anna Magnani interpreta “Serafina Delle Rose” in “La rosa tatuata”

Williams la scrisse per Anna Magnani, dandole il ruolo di emigrante di Sicilia, lei taglia e cuce, un’attività di grande cura quella sartoriale che le tornerà utile anche nella sua vita reale. Anna veste i panni di Serafina, perde il marito e difende le sue ceneri con devozione assoluta, ma soprattutto non recita, come dichiarava la stessa attrice: “Sarò presuntuosa, ma io non credo di recitare. Io non recito. Recito male se provo a recitare. Vivo quello che faccio o credo di viverlo, che è lo stesso”.  Forse proprio per questa ragione, nel 1956 si guadagnerà l’Oscar – un BAFTA come attrice internazionale dell’anno e il Golden Globe per la migliore attrice in un film drammatico – la prima attrice italiana a vincerlo e ancora l’unica ad averlo vinto. Williams dedicò l’opera al suo amato Frenk Merlo, l’italoamericano che gli fece scoprire il “profumo” della Sicilia. Per entrambi, l’opera segnò la rivalsa di quel grande talento artistico. Il suo cuore dunque urtava contro quello del suo mondo, a causa di un amore omosessuale, un “castigo” che lo renderà, a sua insaputa, un genio della letteratura.

La sua forza era nel suo indagare tormentato, nelle sue ombre di uomo alcolizzato, nei suoi sentimenti vissuti al buio o al massimo nella sua amata Taormina, l’unica terra alla luce del sole e della perdizione. La droga e l’alcolismo erano il suo porto sicuro, lì vi ancorava il senso di umiliazione e peccato, lì si ispirò per dar voce a quell’America tragica che lo aveva distrutto, minore eppure così potente.

Ai giornalisti di Sicilia, poco prima della sua morte, nel febbraio dell’83, Williams dichiarava: “Sto raccontando in un libro il mio primo rapporto con il primo uomo della mia vita, Kip, un boscaiolo canadese. Accadde nell’estate del 1940, quando avevo 26 anni. Rapporti con donne ne avevo avuti, prima di incontrare Kip, e ne avrei avuti anche dopo. Ma le mie preferenze sono sempre andate agli uomini. L’alcol, la droga? Mi aiutavano a vincere l’insicurezza, la solitudine, la follia che c’è sempre stata in me e mi ha portato anche in manicomio. Sono stati i Kip a liberarmi dalla follia, dall’alcol, dalla droga, mi hanno dato sicurezza, gioia d’amare, di vivere, di lavorare”.

Quel libro, non lo terminerà mai, morirà soffocato in un albergo a New York, all’età di 69 anni, a causa di un tappo di un flacone di farmaci che strappò con i denti, con la mente offuscata dall’alcol e il corpo pieno di droga.

di Rosamaria Castiglione Angelucci
Attrice e Assistente alla direzione artistica Anime Sceniche

Riferimenti bibliografici:

  • Lo zoo di vetro – Tennesse Williams, Einaudi Editore
  • La rosa tatuata – Tennesse Williams, Einaudi Editore
  • Anna Magnani. Biografia di una donna – Matteo Persica, Edizioni Odoya
  • Il popolo del blues – LeRoi Jones, Shake Edizioni
  • Viaggio americano – Fernanda Pivano, Edizioni Bompiani
  • Articolo del quotidiano spagnolo El Paìs: Una vasta biografía de Tennessee Williams detalla la ruina vital que hizo brillar su obra, Ediciones El Paìs SL
  • Enciclopedia Treccani – Biografia di Tennesse Williams
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